Biografia di Decimo Giunio Giovenale
Ciò che sappiamo con certezza della biografia di Decimo Giunio Giovenale è molto poco: solo gli scarsissimi accenni che egli stesso ne fa nelle satire e quanto di lui ci dice Marziale in tre epigrammi, il ventisettesimo del libro settimo, il novantunesimo dello stesso libro e il diciottesimo del libro dodicesimo. Da questi accenni possiamo desumere con certezza che egli era nato ad Aquino dove conservava qualche possedimento, che nel 92 (anno di pubblicazione del settimo libro di epigrammi di Marziale) per essere amico stretto di un poeta già noto come il cinquantenne Marziale non poteva avere meno di una trentina d'anni, che aveva frequentato le consuete scuole di grammatica e di retorica, che non era privo di beni di fortuna anche se viveva modestamente, tanto da poter invitare convenevolmente gli amici, da fare sacrifici in loro onore, da potersi permettere casa a Roma, casa ad Aquino e probabilmente una campagna a Tivoli e soprattutto da non dover lavorare per vivere.
Qualcuno ha creduto di poter desumere, dal terzo epigramma che Marziale gli dedica (pubblicato insieme ai primi due alla fine del presente volume), che Giovenale fosse anche lui un «cliente», obbligato a corteggiare i ricchi e i potenti per lucrarne mance e inviti a cena. Ma qui si è voluto forzare il vero senso dell'epigramma, scritto da Marziale negli ozii spagnoli e solo inteso a esaltare le gioie della campagna in confronto agli affanni e al cattivo vivere romani. D'altra parte Giovenale dedica un'intera satira (la quinta) a condannare i clientes e la loro miserabile vita, in termini che non ammettono equivoci e non possono far pensare a una sua appartenenza alla categoria che chiaramente disprezza.
Altri elementi sicuri sono il fatto che il poeta ha cominciato a scrivere satire dopo la morte di Domiziano (96 d.C.), già in età matura (nella prima satira egli parla di se stesso quand'era giovane), e che scriveva ancora nel 127, sotto il consolato di Emilio Giunco, citato nella quindicesima satira. Si può anche pensare, considerando il fatto che Marziale chiama Giovenale «facondo», che egli abbia dedicato la prima parte della sua vita all'oratoria: non tanto come avvocato quanto come persona dedita a quelle esercitazioni retoriche pubbliche che si svolgevano nei circoli letterari. Quasi tutta la critica accetta questa ipotesi, visto anche il carattere fortemente retorico delle satire, sia come struttura, sia come casistica «d'effetto», sia come linguaggio.
Sin qui i dati certi o per lo meno assai probabili. Tutto il resto è congettura, o risale alle parecchie biografie che ci sono rimaste, tutte risalenti a un unico originale perduto e assai dubbio e tutte dilatanti in varia misura i pochi dati certi, non senza l'invenzione di particolari romanzeschi del tutto arbitrari.
Lo stesso nome Decimo Giunio Giovenale è sicuro soltanto per quanto riguarda il terzo nome, Giovenale; i primi due sono dati da alcuni manoscritti, mentre altri danno soltanto secondo e terzo nome.
Secondo i biografi egli sarebbe stato il figlio adottivo d'un ricco liberto, il che sembra assurdo, considerando lo spregio con cui egli stesso parla dei liberti. D'altro canto una testimonianza epigrafica rinvenuta ad Aquino e pubblicata nel 1772 (appartenente al tempio di Cerere Helvina, divinità ricordata dal poeta nella terza satira), ci farebbe pensare a un Giovenale di ben diversa classe sociale. Diceva l'iscrizione: «In onore di C...re, nius luvenalis, tribuno della prima coorte dei Dalmati, duumviro quinquennale, flamine del divino Vespasiano, ha votato e dedicato questo a sue spese». Ma se qui, oltre le lacune, è facilmente identificabile l'iniziale Cerere, non è lo stesso per Giovenale, del quale mancano primo e secondo nome. Ma c'è di più, l'iscrizione, dopo la sua prima lettura, è letteralmente sparita e non è mai stata ritrovata. Ragion per cui l'idea di un Giovenale autorevolissimo duumviro di Aquino, flamine di un illustre imperatore, tribuno militare (ma si trattava ormai di una carica puramente onorifica, della quale anche Marziale fu insignito), è di impossibile conferma. Del resto, anche se fosse esistito un Giovenale in siffatto modo «ufficiale», a noi non interesserebbe, visto che la cosa non avrebbe nessuna attinenza con la sua poesia.
Ma il problema sollevato dalle biografie e che in passato è stato il più dibattuto ènquello del preteso esilio di Giovenale, esilio che sarebbe avvenuto per i più in Egitto e per qualcuno in Britannia. E in esilio il poeta, ormai più che ottuagenario, sarebbe morto.
La notizia di questo esilio, elaborata forse nel quarto secolo, nel momento cioè in cui Giovenale era molto alla moda, poco dopo nel quinto secolo ripresa da Sidonio Apollinare, non ha più credito. Mentre ne ebbe molto nel settecento e nella prima metà dell'ottocento, quando si volle fare di Giovenale un araldo della libertà, per questa ragione punito dal potere politico. Il punto di partenza di tutta la questione sta in pochi versi della satira settima, dove è attaccato l'attore Paride, favorito di Domiziano, il quale avrebbe distribuito gradi militari a proprio piacimento. Un altro attore, favorito di Traiano o di Adriano, vedendo in quell'accenno un attacco personale avrebbe fatto nominare il vecchio poeta comandante d'una coorte nell'alto Egitto, dove sarebbe morto. La cosa è palesemente assurda. Traiano non può essere accusato del fatto perché le ultime satire di Giovenale sono state scritte a Roma, regnando Adriano.
Adriano d'altra parte, che si era fatto promotore di una revoca dei gradi militari concessi a sproposito e con eccessiva facilità, e che inoltre era notoriamente sollecito delle frontiere, che faceva sorvegliare da comandanti capaci e nel pieno delle loro forze, non avrebbe certamente mandato un vecchio in un posto delicato come l'alto Egitto. Più semplice infliggergli una qualsiasi altra punizione, o farlo morire. Infine, per chiudere il discorso, l'accenno di Sidonio Apollinare di cui prima s'è detto non fa il nome di Giovenale, ma cita l'esilio di Ovidio e quello di colui «che più tardi, con simile disgrazia, per la tenue brezza d'una chiacchiera popolare, fu esiliato da un istrione irato». Sidonio qui potrebbe parlare di un altro a noi sconosciuto, e il suo accenno essere riferito a Giovenale da altri e magari dar vita alla leggenda.
La storia dei testi di Giovenale non può essere stabilita che a partire dal quarto secolo, quando molti autori cominciano a citarlo e cominciano a circolare i codici. Del quarto secolo appunto è un codice di Bobbio nel quale sono riportati cinquantadue versi di Giovenale. Il testo completo delle Satire ci è stato tramandato però da codici carolingi, del nono secolo, che possono essere raggruppati in due classi, la prima che fa capo a un codice del nono secolo, il Montessulanus o Pithoeanus, la seconda costituita da una serie di codici ognuno dei quali presenta diverse interpolazioni e varianti rispetto al Pithoeanus. Il Pithoeanus comunque resta sempre il testo base, anche se nel 1899 è stato scoperto un codice oxoniense dell'undicesimo secolo che reca un frammento di ben trentaquattro versi della satira sesta (Contro le donne) sconosciuto al Pithoeanus, forse per un errore del copista che avrebbe saltato una pagina.
Le edizioni a stampa di Giovenale sono incominciate nel 1470, quando Uldaricus Gallus stampò a Roma l' editio princeps. Del 1486 è l'edizione veneziana di Lorenzo
Valla. Nel 1585 esce l'edizione stabilita da Pierre Pithou sul Pithoeanus, che da lui appunto prende nome. Dopo di che il Pithoeanus si perde e le successive edizioni (per
esempio le due del Ruperti, Lipsia 1801 e 1819) si basano sui codici della seconda classe. Finché nel 1851 il Pithoeanus viene ritrovato e si ha una serie di edizioni scientifiche di Jahn (1851), Ribbeck (1859), Bucheler (1886) e altre. Col novecento, e la scoperta del frammento oxoniense, parecchie nuove edizioni vengono alla luce, quella londinese dell'Housman (1905), quella del Leo (1910) e molte altre. Fra le quali quella curata da Labriolle e Villeneuve in molte ristampe, su una delle quali (quella del 1962), è stata condotta la presente traduzione, edizione pubblicata dall'editrice parigina Les belles lettres.
Le traduzioni italiane di Giovenale sono molte, a partire da quella del veronese Giorgio Sommariva (Treviso, 1480), più noto come poeta dialettale, a quella dell'ottocentesco Vescovi, sino alle parecchie novecentesche. Tra le quali andranno citate quella di Pietro Ercole (Torino, 1935) e quella di Guido Ceronetti (Torino, 1971), entrambe di utile consultazione.