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L'arrivo di Guglielmo all'abbazia 
da Il nome della rosa di Umberto Eco 

Il nome della rosa di Umberto Eco (1932) è, senza dubbio, il romanzo che ha avuto il maggior successo negli ultimi anni. Le cause di questo esito fortunato sono molteplici; non deve essere sottovalutato, comunque, il fatto che si tratta di un prodotto culturale estremamente raffinato.
Il nome della rosa è un giallo - come accade per il Pasticciaccio - e come per il Pasticciaccio di Gadda il giallo, la struttura del poliziesco è una scusa, che serve a fornire una robusta impalcatura a una enorme massa di materiali. Il nome della rosa è intessuto di citazioni di altri testi. Il lettore meno esperto potrà fermarsi al livello del puro divertimento e appassionarsi alla
soluzione dell'enigma; ma quello colto potrà ritrovare alcuni tra i più intelligenti brani delle proprie letture. Il lettore viene guidato con mano ferma tra le pieghe dell'intreccio e, a differenza di quanto accade in Calvino, è costretto a seguire con docilità le strade che l'autore gli ha preparato e quelle avventure che la sapiente regia di Eco gli ha approntato.

Il nome della rosa - Trama. Siamo alla fine del novembre 1327.
Pisa è cinta d'assedio da Ludovico il
Bavaro, che si prepara a scendere verso Roma. Il papa è ad Avignone. Un momento storico cupo, pieno di eresie e di roghi fa da sfondo al/a storia raccontata da un misterioso manoscritto di Adso da Melk, che l'autore sostiene d'aver letto in una versione francese del 1842.
Adso è un monaco benedettino che, novizio, narra di avere accompagnato in un 'abbazia dell'Italia Settentrionale Guglielmo da Baskerville, un frate incaricato d'una difficile e imprecisata missione diplomatica. Guglielmo è un ex inquisitore amico di Guglielmo di Occam e di Marsilio da Padova. Il frate si trova a indagare su di una serie di delitti (sette in sette giorni), che insanguinano l'abbazia. Guglielmo risolverà l'enigma, interpretando e decifrando ogni sorta di indizi e dando prova di una grande capacità   d'analisi. Centro del mistero è una labirintica e impenetrabile biblioteca, che alla fine verrà distrutta da un furioso incendio.

.Primo giorno 
PRIMA

 Dove si arriva ai piedi dell'abbazia e Guglielmo
dà prova di grande acume.

Era una bella mattina di fine novembre. Nella notte aveva nevicato un poco, ma il terreno era coperto di un velo fresco non più alto di tre dita. Al buio, subito dopo laudi, avevamo ascoltato la messa in un villaggio a valle. Poi ci eravamo messi in viaggio verso le montagne, allo spuntar del sole.

Guglielmo è il francescano protagonista de Il nome della rosa, un uomo lucido, razionale, che investigherà sulle misteriose morti di ben sette frati. La figura di Guglielmo ha suscitato, in una certa critica di area cattolica, un particolare sdegno: Guglielmo, alter-ego dell'autore, è, ondo alcuni, troppo poco religioso, e questo libro è «tutto costruito a specchi deformanti in serie sistematica e tattica strisciante, a discredito e derisione (anche se poi fa ridere così poco) di tutti i valori della Chiesa, della religione, dell'etica, della civiltà e della vita» (Da L'allegro nominalismo nichilistico di Umberto Eco, Guido Sornmavilla, in «Civiltà cattolica», 1980).

Come ci inerpicavamo per il sentiero scosceso che si snodava intorno al monte, vidi l'abbazia. Non mi stupirono di essa le mura che la cingevano da ogni lato, simili ad altre che vidi in tutto il mondo cristiano, ma la mole di quello che poi appresi essere l'Edificio. Era questa una costruzione ottagonale che a distanza appariva come un tetragono (figura perfettissima che esprime la saldezza e l'imprendibilità della Città di Dio), i cui lati meridionali si ergevano sul pianoro dell'abbazia, mentre quelli settentrionali sembravano crescere dalle falde stesse del monte, su cui s'innervavano a strapiombo. Dico che in certi punti, dal basso, sembrava che la roccia si prolungasse verso il cielo, senza soluzione di tinte e di materia, e diventasse a un certo punto mastio 2 e torrione (opera di giganti che avessero gran familiarità e con la terra e col cielo). Tre ordini di finestre dicevano il ritmo trino della sua sopraelevazione, così che ciò che era fisicamente quadrato sulla terra, era spiritualmente triangolare nel cielo.
Nell'appressarvici maggiormente, si capiva che la forma quadrangolare generava, a ciascuno dei suoi angoli, un torrione eptagonale, di cui cinque lati si protendevano all'esterno - quattro dunque degli otto lati dell'ottagono maggiore generando quat-
tro eptagoni minori, che all'esterno si manifestavano come pentagoni. E non è chi non veda l'ammirevole concordia di tanti numeri santi, ciascuno rivelante un sottilissimo senso spirituale. Otto il numero della perfezione d'ogni tetragono, quattro il numero dei vangeli, cinque il numero delle parti del mondo, sette il numero dei doni dello Spirito Santo. Per la mole, e per la forma, l'Edificio mi apparve come più tardi avrei visto nel sud della penisola italiana Castel Ursino o Castel dal Monte, ma per la posizione inaccessibile era di quelli più tremendo, e capace di generare timore nel viaggiatore che vi si avvicinasse a poco a poco. E fortuna che, essendo una limpidissima mattinata invernale, la costruzione non mi apparve quale la si vede nei giorni di tempesta. 
Non dirò comunque che essa suggerisse sentimenti di giocondità. lo ne trassi spavento, e una inquietudine sottile. Dio sa che non erano fantasmi dell'animo mio immaturo, e che rettamente interpretavo indubitabili presagi iscritti nella pietra, sin dal giorno che i giganti vi posero mano, e prima che la illusa volontà dei monaci ardisse consacrarla alla custodia della parola divina. Mentre i nostri muletti arrancavano per l'ultimo tornante della montagna, là dove il cammino principale si diramava a trivio, generando due sentieri laterali, il mio maestro si arrestò per qualche tempo, guardandosi intorno ai lati della strada, e sulla strada, e sopra la strada, dove una serie di pini sempreverdi formava per un breve tratto un tetto naturale, canuto di di neve. «Abbazia ricca,» disse. «All' Abate piace apparire bene nelle pubbliche occasioni.» 
Abituato come ero a sentirlo fare le più singolari affermazioni, non lo interrogai.

Anche perché, dopo un altro tratto di strada, udimmo dei rumori, e a una svolta apparve un agitato manipolo di monaci e di famigli.  Uno di essi, come ci vide, ci venne incontro con molta urbanità:  «Benvenuto signore,» disse, «e non vi stupite se immagino chi siete, perché siamo stati avvertiti della vostra visita. lo sono Remigio da Varagine, il cellario del monastero. E se voi siete, come credo, frate Guglielmo da Bascavilla, l'Abate dovrà esserne avvisato. Tu,» ordinò rivolto a uno del seguito, «risali ad avvertire che il nostro visitatore sta per entrare nella cinta!»
«Vi ringrazio, signor cellario,» rispose cordialmente il mio maestro, «e tanto più apprezzo la vostra cortesia in quanto per salutarmi avete interrotto l'inseguimento. Ma non temete, il cavallo è passato di qua e si è diretto per il sentiero di destra. Non potrà andar molto lontano perché, arrivato al deposito dello strame, dovrà fermarsi. E troppo intelligente per buttarsi lungo il terreno scosceso.. ... »
«Quando lo avete visto?» domandò il cellario.
«Non l'abbiamo visto affatto, non è vero Adso?» disse Guglielmo volgendosi verso di me con aria divertita. «Ma se cercate Brunello, l'animale non può che essere là dove io ho detto.»
Il cellario esitò. Guardò Guglielmo, poi il sentiero, e infine domandò: «Brunello? Come sapete?»
«Suvvia,» disse Guglielmo, «è evidente che state cercando Brunello, il cavallo preferito dell' Abate, il miglior galoppatore della vostra scuderia, nero di pelo, alto cinque piedi, dalla coda sontuosa, dallo zoccolo piccolo e rotondo ma dal galoppo assai
regolare; capo minuto, orecchie sottili ma occhi grandi. È andato a destra, vi dico, e affrettatevi, in ogni caso.»
Il cellario ebbe un momento di esitazione, poi fece un segno ai suoi e si gettò giù per il sentiero di destra, mentre i nostri muli riprendevano a salire. Mentre stavo per interrogare Guglielmo, perché ero morso dalla curiosità, egli mi fece cenno di attendere: e infatti pochi minuti dopo udimmo grida di giubilo, e alla svolta del sentiero riapparvero monaci e famigli riportando il cavallo per il morso. Ci passarono di fianco continuando a guardarci alquanto sbalorditi e ci precedettero verso l'abbazia. Credo anche che Guglielmo rallentasse il passo alla sua cavalcatura per permettere loro di raccontare quanto era accaduto. Infatti avevo avuto modo di accorgermi che il mio maestro, in tutto e per tutto uomo di altissima virtù, indulgeva al vizio della vanità quando si trattava di dar prova del suo acume e, avendone già apprezzato le doti di sottile diplomatico, capii che voleva arrivare alla meta preceduto da una solida fama di uomo sapiente.
«E ora ditemi» alla fine non seppi trattenermi, «come avete fatto a sapere?»
«Mio buon Adso,» disse il maestro. «È tutto il viaggio che ti insegno a riconoscere le tracce con cui il mondo ci parla come un grande libro. Alano delle Isole diceva che

omnis mundi creatura
quasi liber et pictura
nobis est in speculum 

e pensava alla inesausta riserva di simboli con cui Dio, attraverso le sue creature, ci parla della vita eterna. Ma l'universo è ancor più loquace di come pensava Alano e non solo parla delle cose ultime (nel qual caso lo fa sempre in modo oscuro) ma anche di quelle prossime, e in questo è chiarissimo. Quasi mi vergogno a ripeterti quel che dovresti sapere. Al trivio, sulla neve ancora fresca, si disegnavano con molta chiarezza le impronte degli zoccoli di un cavallo, che puntavano verso il sentiero alla nostra
sinistra. A bella e uguale distanza l'uno dall'altro quei segni dicevano che lo zoccoloera piccolo e rotondo, e il galoppo di grande regolarità - così che ne dedussi la natura del cavallo, e il fatto che esso non correva disordinatamente come fa un animale imbizzarrito. Là dove i pini formavano come una tettoia naturale, alcuni rami erano stati spezzati di fresco giusto all'altezza di cinque piedi. Uno dei cespugli di more, là dove l'animale deve aver girato per infilare il sentiero alla sua destra, mentre fieramente scuoteva la sua bella coda, tratteneva ancora tra gli spini dei lunghi crini nerissimi... Non mi dirai infine che non sai che quel sentiero conduce al deposito dello strame, perché salendo per il tornante inferiore abbiamo visto la bava dei detriti scendere a strapiombo ai piedi del torrione meridionale, bruttando la neve; e così come il trinvio era disposto, il sentiero non poteva che condurre in quella direzione.» 
«Sì,» dissi, «ma il capo piccolo, le orecchie aguzze, gli occhi grandi..;» 
«Non so se li abbia, ma certo i monaci lo credono fermamente. Diceva Isidoro di Siviglia Il che la bellezza di un cavallo esige 'ut sit exiguum caput, et siccum prope ossibus adhaerente, aures breves et argutae, oculi magni, nares patulae, erecta cervix, coma densa et cauda, ungularum soliditate fixa rotunditas'. Se il cavallo di cui ho inferito il passaggio non fosse stato davvero il migliore della scuderia, non spiegheresti perché a inseguirlo non sono stati solo gli stallieri, ma si è incomodato addirittura il cellario. E un monaco che considera un cavallo eccellente, al di là delle forme naturali, non può non vederlo così come le auctoritates glielo hanno descritto, specie se,» e qui sorrise con malizia al mio indirizzo, «è un dotto benedettino ... » 
«Va bene,» dissi, «ma perché Brunello?» 
«Che lo Spirito Santo ti dia più sale in zucca di quel che hai, figlio mio!» esclamò il maestro. «Quale altro nome avresti dato se persino il grande Buridano, che sta per diventare rettore a Parigi, dovendo parlare di un bel cavallo, non trovò nome 
più 
naturale?» 
Così era il mio maestro. Non soltanto sapeva leggere nel gran libro della natura, ma anche nel modo in cui i monaci leggevano i libri della scrittura, e pensavano attraverso di quelli. Dote che, come vedremo, gli doveva tornar assai utile nei giorni che sarebbero seguiti. La sua spiegazione inoltre mi parve a quel punto tanto ovvia che l'umiliazione per non averI a trovata da solo fu sopraffatta dall'orgoglio di esserne ormai compartecipe e quasi mi congratulai con me stesso per la mia acutezza. Tale è la forza del vero che, come il bene, è diffusivo di sé. E sia lodato il nome santo del nostro signore Gesù Cristo per questa bella rivelazione che ebbi. Ma riprendi le fila, o mio racconto, ché questo monaco senescente si attarda troppo nei marginalia.  Di' piuttosto che arrivammo al grande portale dell'abbazia, e sulla soglia stava l'Abate a cui due novizi sorreggevano una bacinella d'oro colma d'acqua. E come fummo discesi dai nostri animali, egli lavò le mani a Guglielmo, poi lo abbracciò baciandolo sulla bocca e dandogli il suo santo benvenuto, mentre il cellario si occupava di me. 
«Grazie Abbone,» disse Guglielmo, «è per me una gioia grande mettere piede nell monastero della magnificenza vostra, la cui fama ha valicato queste montagne. lo vengo come pellegrino nel nome di Nostro Signore e come tale voi mi avete reso onore. Ma vengo anche a nome del nostro signore su questa terra, come vi dirà la lettera che vi consegno, e anche a suo nome vi ringrazio per la vostra accoglienza.» 
L'Abate prese la lettera coi sigilli imperiali e disse che in ogni caso la venuta di Guglielmo era stata preceduta da altre missive di suoi confratelli (dappoiché, mi dissi Io con un certo orgoglio, è difficile cogliere un abate benedettino di sorpresa), poi pregò il cellario di condurci ai nostri alloggiamenti, mentre gli stallieri ci prendevano cavalcature. L'Abate si ripromise di visitarci più tardi quando ci fossimo rifocillati, ed entrammo nella grande corte dove gli edifici dell'abbazia si estendevano lungo tutto il dolce pianoro che smussava in una morbida conca - o alpe - la sommità del monte. '.
Della disposizione dell'abbazia avrò occasione di dire più volte, e più minutamente.
Dopo il portale (che era l'unico varco nelle mura di cinta) si apriva un viale alberato che conduceva alla chiesa abbaziale. A sinistra del viale si stendeva una vasta zona di orti e, come poi seppi, il giardino botanico, intorno ai due edifici dei balnea e dell'ospedale ed erboristeria, che costeggiavano la curva delle mura. Sul fondo, a sinistra della chiesa, si ergeva l'Edificio, separato dalla chiesa da una spianata coperta di tombe. Il portale nord della chiesa guardava il torrione sud dell'Edificio, che offriva frontalmente agli occhi del visitatore il torrione occidentale, quindi a sinistra si legava alle mura e sprofondava turrito verso l'abisso, su cui si protendeva il torrione settentrionale, che si vedeva di sghimbescio. A destra della chiesa si stendevano alcune costruzioni che le stavano a ridosso, e intorno al chiostro: certo il dormitorio, la casa D'Abate e la casa dei pellegrini a cui eravamo diretti e che raggiungemmo traversando un bel giardino. Sul lato destro, al di là di una vasta spianata, lungo le mura meridionali e continuando a oriente dietro la chiesa, una serie di quartieri colonici, stalle, mulini, frantoi, granai e cantine, e quella che mi parve essere la casa dei novizi. La regolarità del terreno, appena ondulato, aveva permesso agli antichi costruttori di quel luogo sacro di rispettare i dettami dell'orientamento, meglio di quanto avrebbero potuto pretendere Onorio Augustoduniense e Guglielmo Durando. Dalla posizione del sole in quell'ora del giorno, mi avvidi che il portale si apriva perfettamente a occidente, così che il coro e l'altare fossero rivolti a oriente; e il sole di buon mattino poteva sorgere risvegliando direttamente i monaci nel dormitorio e gli animali nelle stalle. Non vidi abbazia più bella e mirabilmente orientata, anche se in seguito conobbi San Gallo, e Cluny, e Fontenay, e altre ancora, forse più grandi ma meno proporzionate. Diversamente dalle altre, questa si segnalava però per la mole incommensurabile dell'Edificio. Non avevo l'esperienza di un maestro muratore, ma mi avvidi subito che esso era molto più antico delle costruzioni che lo attorniavano, nato forse per altri scopi, e che l'insieme abbaziale gli si era disposto intorno in tempi posteriori, ma in modo che l'orientamento della grande costruzione si adeguasse a quello della chiesa,o questa a quello. Perché l'architettura è tra tutte le arti quella che più arditamente cerca di riprodurre nel suo ritmo l'ordine dell'universo, che gli antichi chiamavano kosmos, e cioè ornato, in quanto è come un grande animale su cui rifulge la perfezione la proporzione di tutte le sue membra. E sia lodato il Creatore Nostro che, come Agostino, ha stabilito tutte le cose in numero, peso e misura.

Da Il nome della rosa, Milano, Bompiani, 1981

Per la struttura "Il nome della rosa" si inserisce nel genere del romanzo giallo, o ploiziesco, un tipo di letteratura molto popolare, che deve il suo successso allo schema su cui è costruito (delitto-indagine-soluzione) e ai mezzi con cui l'autore rende avvincente la lettura, come per esempio, l'imprevisto e il colpo di scena. 
L'iniziatore del romanzo poliziesco è considerato Edgar Alan Poe, che nel racconto "Il delitto della via Morgue (1841) creò per la prima volta, una vicenda che si svolge in una «camera chiusa» e la figura del detective Auguste Dupin, uomo più di pensiero che di azione, che indaga sul mistero attraverso una logica di tipo induttivo, valorizzando gli indizi per poter risalire alle cause. Dunque anche il romanzo di Umberto Eco, in questo senso, è un romanzo giallo pur contenendo numerosi riferimenti ad altri generi letterari.

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