Racconto di Natalia Ginzburg
Avevo paura di mio padre
Questo padre con la fronte aggrottata e le sopracciglia arruffate, che non parla, ma urla o meglio «tuona» ordini e critiche, ispira una sacra paura alla figlia, una bambina impacciata, indolente e insicura: una paura tanto grande da non avere il coraggio di rivolgergli mai la parola.
Mio padre... non voleva che uscissi sola. A scuola mi doveva accompagnare la donna di servizio, che tanto, come lui diceva sempre, «non aveva mai niente da fare». «Guai a te se la mandi a scuola sola», aveva urlato a mia madre: e mia madre gli aveva assicurato che m'avrebbe sempre accompagnato la donna. Mentiva; e io me ne accorsi.
Sapevo che a mio padre si dicevano, ogni tanto, delle bugie: era necessario, perché lui aveva, come ripeteva sempre mia madre, «un gran brutto carattere», e le bugie servivano a dare a noi tutti un po' di respiro, a difenderci dai suoi molteplici comandi e divieti .
lo però mi ero accorta che le bugie dei miei fratelli a mio padre avevano qualche probabilità di durata; ma le bugie che gli diceva mia madre, nascevano malate d'un'intima gracilità, e si estinguevano nello spazio d'un giorno.
Quanto a me, non dicevo bugie a mio padre semplicemente perché non avevo il coraggio di rivolgergli mai la parola: avevo di lui una sacra paura.
Se accadeva che mi chiedesse qualcosa, gli rispondevo a voce tanto bassa, che lui non capiva e
urlava che non aveva capito: mia madre gli diceva allora cos'avevo detto, e le mie parole, nel!a voce di mia madre, mi sembravano una miseria; facevo un sorriso largo e stupido: il sorriso che s'apriva sulla mia faccia, quando sentivo tremare in me la paura e la vergogna d'aver paura.
Ero persuasa che mio padre avrebbe presto scoperto che a scuola non mi accompagnava nessuno: la sua collera usava abbattersi sulle bugie di mia madre con la furia d'una bufera: e io odiavo d'essere all'origine d'una lite fra i miei genitori: era la cosa che odio e temevo di più al mondo.
Pensai che la mia vita passata, quando non andavo a scuola, era stata assai dolce.
Era certo la vita d'un impiastro: ma come l'amavo nella memoria.
Mi alzavo tardi, e facevo bagni lunghi e caldissimi, disubbidendo a mio padre, che esigeva e credeva che io facessi il bagno freddo in ogni stagione.
Poi mangiavo a lungo frutta e pane; e con un pezzo di pane mi mettevo a leggere, stando carponi sul pavimento. Mi dicevo a volte che fra le grandi sventure che potevano colpirmi, una era che mio padre decidesse di non lavorare più nel suo istituto, dove passava le giornate vestito d'un camice grigio; ma portasse invece la sua roba a casa, il camice, il microscopio e i vetrini su cui studiava;
e allora tutte le cose che io facevo al mattino mi sarebbero state proibite, dai bagni caldi al pane mangiato leggendo e per terra.
Non ero studiosa. Mio padre ai miei studi non s'interessava, avendo, come spesso dichiarava, «altro da pensare»; lo preoccupavano invece gli studi d'un mio fratello, maggiore di me di qualche anno «che non aveva voglia di far niente», cosa che a lui faceva «perdere il lume degli occhi».
Mia madre lo informava ogni tanto che io «non capivo l'aritmetica», ma questa notizia non sembrava scuoterlo.
Usava però tuonare in generale contro «la poltroneria»: e le mie mattinate erano pura poltroneria, e io lo sapevo e lo pensavo, mangiando pane e leggendo romanzi con un vago senso di colpa e con profondo piacere.
Quando arrivava la maestra, mi tiravo su con le ginocchia formicolanti, e la testa confusa; sedevo con lei al tavolo, e le offrivo i miei compiti monchi e sbagliati.
S'arrabbiava e mi sgridava, ma io non avevo paura: essendo avvezza alle collere di mio padre,
le sgridate della maestra Tedem erano per me un tubare di colomba.
Fissavo il suo cappello di feltro, le sue perle, il suo foulard di seta; nessun soffio di paura saliva a me dal suo chignon puntato con forcine di tartaruga dalla borsa che aveva posato sul tavolo e che assomigliava alla borsa di mia madre.
Il terrore aveva per me i tratti di mio padre: la sua fronte aggrottata, le sue lentiggini, le sue lunghe guance rugose e scavate, le sue sopracciglia arruffate e ricciute, la sua torva spazzola rossa.