Poesia di Luciano Luisi
Che cosa è un padre per un figlio
Ora sei calmo, finalmente, hai pace.
So che sei morto, non ho più paura
che tu debba morire, non ho più
paura del tuo cupo, lungo rantolo ,
che dilatava i muri della stanza,
del tuo respiro che chiedeva aiuto
al fiato del mio petto,
del grido dei tuoi occhi a supplicarmi.
Sono stanco, lo sai. Non ho paura
ormai d'addormentarmi,
di piegare la testa sul tuo letto,
di mescolare alla tua larga quiete
disumana, il mio sonno affannato.
E non ho più l'angoscia
d'esserti inutile come un nemico:
so che sei morto, hai pace,
è tornato il silenzio. !
(1952)
Una antologia di poesie dedicate al padre può ricondurre, e per molti lettori forse inaspettatamente, al tema inquietante della convivenza nelle famiglie di oggi, a quelle difficoltà di comunicazione, a quell'assenza di amore, che così spesso possiamo incontrare nella nostra esperienza quotidiana.
A differenza dei florilegi per la madre che a qualsiasi epoca o cultura attingano hanno sempre come denominatore comune il sentimento filiale e la tenerezza, qui ci troviamo di fronte anche a note dissonanti amare e dolorose.
Sappiamo bene, del resto, e la letteratura e le cronache dei giornali ne sono così spesso uno specchio, quali siano le difficoltà di rapporti che le generazioni hanno fra di loro, e particolarmente quando a separarle vi sia stato un evento bellico.
Si può allora constatare, e ormai purtroppo senza stupore, che frequentemente il padre è considerato un estraneo, quando addirittura il disamore non conduca al disprezzo e all'odio.
E allora ci si può chiedere: di chi la colpa che ha fermato il passo che avrebbe dovuto avvicinarlo all'altro? Vengono in mente, e possiamo farli nostri, gli interrogativi che Dacia Maraini si pone in apertura di una prefazione al libro di Luigi Amendola
Il carteggio del rancore, che ha come sottotitolo: «un ritratto paterno spietato come un insulto».
Si chiede la Maraini: «Che cos'è un padre per un figlio ? che cos'è un figlio per un padre?
E perché figlio e padre sembrano destinati, sempre, a scontrarsi e incontrarsi, mangiandosi e vomitandosi, detestandosi e identificandosi fino a diventare uno identico all'altro pur nelle più decise affermazioni di indipendenza?».
Queste domande le avrà rivolte sopra tutto a se stessa nei lunghi anni durante i quali il suo rapporto con il padre, che prima era d'amore e di ammirazione, si è poi «guastato» - dice nel suo diario Bagheria -«non so come, non so perché».
Si legge anche, in questi versi, un altro - stato d'animo del quale la stessa Maraini ci dà testimonianza. Dopo poco infatti in quelle stesse pagine di Bagheria lei ritrova la fonte non essiccata di quella lontana tenerezza. E ciò accade quando ha raggiunto una età nella quale può guardare il padre, per così dire, dallo stesso livello di vita e di esperienza.
Possiamo definirlo, questo stato d'animo, «riscoperta del padre», ovvero constatazione che il padre (nel migliore dei casi posto come in ombra dal grande amore «carnale» per la madre) è una conquista della maturità, di quando cioè, a rebour, lo si può valutare con occhi diversi nella sua personalità più vera, più nascosta, nel suo amore pudico, nel suo donar si meno appariscente di quello materno.
Così lo hanno capito, soltanto da adulti, Umberto Saba, che fino ai suoi vent'anni, considerava il padre «un assassino», e persino Camillo Sbarbaro, il tenerissimo Camillo Sbarbaro, che da giovane provava ira per la vecchiezza paterna.
Scrive Antonio De Benedetti in Giacomino, racconto senza veli della vita del suo illustre genitore: «Non riusciva a trovare il giusto compromesso fra severità, ansia e affetto.
Così erano più le cose che mandava a dire, in modo che oggi si direbbe trasversale, di quelle che ci diceva direttamente». E, in Ventriloquii viennesi, lo scrittore austriaco Hans Raimund, figlio di un nazista che gli parve «come morto» dopo la caduta della dittatura: «Mio padre dominava tutti: la famiglia, i parenti, gli amici. Imprimeva su di noi il suo marchio attraverso il no categorico, il carattere chiuso e di poche parole... Lui non raccontava niente. Quel poco che so della sua vita lo sono venuto a sapere per caso stando accovacciato sotto il tavolo quando c'erano ospiti».
Ancora più desolante e amaro è ciò che Kafka scrive nella sua famosa Lettera al padre: «Da sempre mi rimproveri quando siamo soli e di fronte ad altri, non hai mai avuto sensibilità per l'umiliazione insita in questo secondo caso, ifatti dei tuoifigli sono sempre
stati pubblici...». E ancora, venendo al nodo più drammatico:
«L'impossibilità di un rapporto tranquillo ha avuto un'altra conseguenza, davvero molto naturale: ho disimparato a parlare... Tu cominciasti assai presto a togliermi la parola, la tua minaccia "Non una parola di replica!" e la relativa mano alzata, mi accompagnano sempre». E che dialogo poterono avere con i loro padri ingombranti, il Leopardi, il Tasso e Flaubert e Joyce e San Francesco?
Quei padri pesarono sulle loro spalle come Anchise su quelle di Enea dice, con bella immagine, il critico Walter Mauro che ha scritto una serie di saggi su quei difficili rapporti.
È dunque vera l'affermazione del sociologo tedesco Max Weber che il primo dei poteri tendenti a soffocare l'uomo è quello paterno?
E tuttavia, stando ai nomi che abbiamo citato (e mi ricordo anche di Stevenson, e chi sa quanti altri artisti) l'inconscia volontà edipica di uccidere il padre, intuita da Freud, come affermazione del proprio ego, porterebbe, come sembra, ad una maggiore affermazione della creatività. «Giustamente hai rivolto il tuo disprezzo alla mia attività di scrittore e a quanto, a te ignoto, le era collegato», disse Kajka al padre.
(E per quanti padri un figlio che voglia intraprendere una qualsiasi carriera artistica, inseguire quei «vani
fantasmi», è un figlio perduto!) Sarebbe perciò pertinente l'apologo kantiano della colomba: quanto più la colomba trova resistenza nell'aria tanto più tende a salire in alto.
Si può forse spiegare con quanto abbiamo detto finora l'assenza della figura paterna in gran parte della poesia italiana? Ho potuto
fare questa constatazione preparando questa antologia. Non una poesia per il padre in Dante, in Petrarca, nel Tasso, nell'Ariosto, non in Carducci o in D'Annunzio, né, più vicini a noi, in Montale, in Ungaretti, in Betocchi, in Luzi, in Zanzotto. (E la lista potrebbe continuare.) Sfogliando decine e decine di libri dove ho trovato soltanto una poesia per il padre (generalmente per la morte o in memoria), ve n'erano numerose per la madre, chiamata con i più dolci appellativi e sopratutto mamma.
Qui troverete due sole volte invece un'espressione più familiare, più affettuosa: in un verso di Ruffilli
«babbo, papà», e in uno di Tiziano Rossi: «aiutami, papà».
Per il genitore spesso un sentimento ostile (è a tutti nota la celebre invettiva di Cecco Angiolieri), che può durare anche dopo la sua scomparsa: «Sei sceso sottoterra... ma mi ferisci ancora» (Bigiaretti), e persino davanti al feretro: «Guarda in alto, neppure ora mi guarda» (Cimatti).
Più frequente il rimprovero per la sua assenza, per la mancanza di un dialogo. «Non ti fermavi mai, ci salutavi sempre» (Landi), «dentro il mio cuore il tuo amore distratto» (Spagnoletti),. «Il denaro, il fumo, gli amici non altro amavi, non la casa» (Guerrini),. «...assente come sempre ad ogni appello» (Stecher).
Ma con il passare degli anni, quando il figlio è diventato a sua volta padre, quello stato d'animo (come abbiamo più volte constatato) può mutare: «Con gli anni ho capito il vuoto che può lasciare un uomo», scrive Nelo Risi.
E con il passare degli anni può accadere che questo padre sconosciuto ci cresca dentro, ci diventi fratello, figlio. E può accadere che una sera, tornando a casa, guardando nel vetro del portone in un fioco riflesso di luce, si veda nostro padre, ci stupisca una insospettata e inquietante rassomiglianza.
È suo quel gesto di cercare la chiave, quel modo di stringere gli occhi per guardare, sua quella testa ormai calva. È avvenuta negli anni questa immedesimazione «fino a diventare uno identico all'altro»,
«...in me rivive l'impronta della sua figura, quel modo di girarsi, di gestire,...» (Faggi),. «... vedendomi in bocca una mossa che forse era stata anche tua che l'avevi da quand'eri ragazzo» (Scotellaro).
E questa sensazione si accompagna, quando il padre ci ha lasciato troppo presto, alla sorpresa di essere diventati suoi coetanei:
«Ho gli anni di mio padre - ho le sue mani quasi: le dita specialmente, le unghie curve e un po' spesse...» (Raboni). È- uno stato d'animo che ho provato anch'io, privato precocemente della sua presenza.
Ecco (se mi è consentito citarmi): «... padre che torni a ritrovarmi in questa mia età che tenta, stupita di raggiungerti....accanto a me che sono tuo figlio che ha quasi i tuoi anni... ».
E allora, quando questa identificazione avviene, o comunque nella tardiva scoperta di quel padre che non si conosceva (per colpa sua o nostra) la poesia può venarsi persino di contrizione come nel rimpianto struggente di Alfonso Gatto: «Mi basterebbe che tu fossi - vivo, un uomo vivo col tuo cuore è un sogno... », o nel canto sofferto di Patrizia Valduga: «Oh padre, padre che conosco ora, ora soltanto dopo tanta vita,ti prego parlami, parlami ancora». !
Ecco, accanto al ripiegarsi in una memoria che ha i colori del compianto, della rabbia, e del rimorso (quel rimorso forse ingiustificato che accompagna sempre la perdita delle persone care e, peggio, quando di troppo se ne è superata l'età estrema), il sentimento dominante in queste pagine è l'amarezza di non avere avuto un dialogo, o che sia rimasto incompiuto, si sia spento per sempre, anche se ognuno sa bene dentro di sé che comunque sarebbe rimasto sulla soglia di un abbandono impercorribile.
L'intento di dare una lettura psicologica dei rapporti tra padri e figli in questo nostro secolo così difficile da comprendere per i grandi mutamenti che lo hanno attraversato, e ciò nelle testimonianze sensibili dei poeti, è prevalso sul rigore delle scelte, del resto sempre arbitrario e improponibile in una antologia tematica. Per questo il lettore troverà accanto a grandi nomi, o a nomi di poeti emergenti, altri che meno gli sono familiari, ma fra i quali tuttavia potrà forse cogliere gli accenti più vibranti, il dono di un talento che non ha avuto per motivi insondabili il pieno riconoscimento. Una antologia può avere anche questo compito.
Debbo infine confessare che l'intento più intimo nel curarla era quello di rendere omaggio alla memoria di mio padre, e a mio padre, la dedico, riproponendo qui la più lontana (e la prima) fra le molte poesie nelle quali, quasi con mia sorpresa, c'è lui.