Sonetto di Rainer Maria Rilke
Tu amico mio
XVI
Tu, amico mio, sei solo, perché ...
noi con parole e cenni delle dita
poco alla volta ci appropriamo del mondo,
forse della sua parte più debole, pericolosa.
Chi indica un odore con le dita?
Eppure delle forze che ci minacciarono
molte ne hai sentite ...Conosci i morti,
e l'incantesimo ti impaurisce.
Vedi, adesso dobbiamo raccogliere
frammenti e parti, come se fossero il tutto.
Aiutarti, sarà difficile. Anzitutto: non piantarmi
nel tuo cuore. Crescerei troppo presto.
Ma voglio guidare la mano del mio Signore
e dire: qui. Ecco Esaù nel suo vello.
II, 23
Chiamami quando ritorna l'ora
che ostinatamente ti s'oppone:
s'accostò qual cane che t'implora,
ma ti schiva quando hai l'illusione
d'afferrarla. Ecco, tuo è questo:
spoliazione. Noi viviamo senza
legami; dove aspettammo il gesto
dell'incontro, lì fu la licenza.
Trepidi, vorremmo una certezza:
antica?...in noi troppa giovinezza,
e vecchi, per ciò che non è ancora.
Noi, giusti se tuttavia inneggiamo,
perché, ahimé, siamo la scure e il ramo
mentre dolce il rischio s'insapora.
«Questo sonetto - commenta Rilke - è rivolto a un cane. "La mano del mio Signore" stabilisce la relazione con Orfeo, che qui è considerato il "Signore" del poeta. Egli vuole guidare questa mano perché, in forza della sua infinita partecipazione e dedizione, benedica il cane che, quasi come Esaù {si tratta in verità di Giacobbe, Genesi, 27 }, si è avvolto nel vello, per poter partecipare di una eredità che non gli spetta: quella dell'intera umanità con le sue sofferenze e le sue gioie».