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Motti dannunziani

Alla voce «motto», nel dizionario della lingua italiana, si trova scritto: «parola e frase nella quale è compendiato, con valore esemplare e imperativo, l'assunto di una persona o di una comunità».
Nel caso dei motti dannunziani si può affermare che essi divennero espressione non solo della persona - di uno straordinario personaggio che ha dominato la nostra vita culturale e politica per mezzo secolo -, ma anche di un 'intera comunità, ovverossia della società italiana del primo ventennio del nostro secolo.

Il processo con il quale frasi latine e iscrizioni di vecchi stemmi polverosi, ormai prive di importanza e significato divennero le formule magiche per infiammare gli animi di amore per la patria e per la guerra, non si può spiegare senza tener conto della immensa popolarità e dell'ascendente che Gabriele d'Annunzio ebbe sul pubblico e poi sull'intero popolo italiano grazie alla sua personalità magnetica, o quanto meno elettrizzante.
Il fenomeno d'Annunzio ebbe proporzioni oggi difficilmente immaginabili: ora che di lui si conoscono più i vizi che le virtù, più le colpe, reali o presunte che i meriti, si stenta a credere a quella follia di massa che lo considerò un essere superiore dotato di qualità eccezionali, addirittura un Maestro di vita. Un piccolo dio, uno e trino-poeta, eroe e grande amatore -sul quale si versarono fiumi d'inchiostro,. che fu osannato e odiato come pochi al mondo,. che entrò ancora in vita nella leggenda.

Di questa leggenda sono parte integrante i motti tratti dall'antichità classica e dal patrimonio rinascimentale di cui d'Annunzio si circondò nella fastosa villa La Capponcina e nell'«eremo» del Vittoriale e che costituirono uno dei principali strumenti con cui egli costruì il suo personaggio.
Basta sfogliare questa raccolta dei più significativi motti usati dal poeta, per rendersi conto che ognuno di essi, ben lungi dall'essere una vuota citazione, rispondeva ad una funzione ben precisa: quella di incitare all'amore per l'arte e alla dura fatica creativa (i motti del Vate),  all'ardimento e alle imprese eroiche (i motti di guerra); alla sfida aperta al governo e alle istituzioni (i motti di Fiume). Più difficile è rendersi conto dell'effetto prorompente che essi produssero al tempo
del «vate nazionale». In un primo tempo erano rivolti esclusivamente a lui, all'artista che si isolava dal mondo per seguire la sua ispirazione: «Per non dormire» e «Ognora desto» erano una sorta di autoincitazione al lavoro, squilli di tromba che glif acevano seguire la dura tabella di marcia che egli si imponeva nei periodi di maggior fervore creativo.

Allora, ai tempi della Capponcina, questa dei motti poteva essere considerata una delle tante manie del vate, alla stregua del suo amore per i cani e i cavalli: un po' stravagante ma innocua, e tale tornò ad essere nei tristi anni del Vittoriale, quando sentenze e motti gentilizi servirono a consolare un personaggio ormai escluso definitivamente dalla scena politica del Paese.

Ben altro spessore ebbero i motti che infiorarono l'oratoria di guerra di Gabriele d'Annunzio. Quell'oratoria che contribuì non poco ad eccitare gli animi alla vigilia dell'intervento dell'Italia al primo conflitto mondiale e che come un suono di fanfara, accompagnò le più importanti azioni militari, e in seguito, l'occupazione di Fiume.
Per i governanti e per il Comando Supremo dell'esercito, il «retore terribile» - come Romain Rolland definì il poeta abruzzese - fu una vera benedizione.
Smessa la veste di poeta decadente, d'Annunzio, appena tornato dal suo esilio francese, con il suo discorso tenuto a Quarto il 5 maggio del 1915, inaugurava non tanto il Monumento ai Mille, quanto la sua nuova immagine di «poeta della guerra».
Lo vediamo nelle vecchie foto d'epoca, vestito semplicemente, senza l'eleganza vistosa dell'uomo di mondo, teso nello sforzo di imprimere nel popolo le sue idee.
Da allora cominciò a lanciare slogan come dardi, a dialogare con la folla instaurando quello stile ripreso pochi anni dopo dal fascismo.
La guerra egli l'aveva già invocata negli appelli che aveva lanciato dalla Francia sul Corriere della Sera. diretto allora da Albertini, sin dall'ottobre del 1914.
Una guerra che, secondo lui, andava combattuta all'insegna del genio latino, come ultima speranza di salvezza dei popoli mediterranei minacciati dalle barbarie dell'Austria e della Germania.

Non si trattava di una conversione improvvisa, ma di convinzioni ben radicate nell'animo del poeta che alla vista della Francia in guerra aveva ripreso un suo vecchio leit-motiv della decadenza delle razze latine che rischiavano di essere asservite e sterminate dalla «razza germanica».
Risorgere o morire era il destino fatale del nostro popolo. In questa prospettiva -oseremmo dire di razzismo all'incontrario -la guerra non era per lui un semplice conflitto di interessi, ma qualcosa di più profondo, anzi di «quasi divino».

Ma il peso che il discorso di Quarto e la campagna interventista in enere che d'Annunzio tenne nelle «radiose giornate di maggio» è stato forse sopravvalutato.
Non fu certo l'Orazione della sagra dei Mille ad indurre il governo italiano a dichiarare guerra all'A ustria, visto che il Patto di Londra che stabiliva la partecipazione dell'Italia al conflitto, fu firmato il 26 aprile del 1915, dunque prima della prolusione dannunziana.
E certamente d'Annunzio non era solo nella sua campagna.
È vero invece che del vate nazionale e della sua oratoria si servì ampiamente il governo e tutti coloro che nella guerra avevano forti interessi economici.

Come è noto però, d'Annunzio non si limitò a predicare la necessità della guerra.
Passò all'azione, lanciando sul nemico bombe e motti beffardi, librandosi in volo proprio come il personaggio del suo ultimo romanzo - il Forse che sì forse che no del 1910 - l'aviatore Paolo Tarsis. «Non sono un letterato dello stampo antico in papalina e pantofole. lo sono un soldato...» scrisse d'Annunzio ad Antonio Salandra dopo esser si arruolato in guerra a 52 anni come volontario. Se le gesta eroiche rappresentarono una pura ostentazione di coraggio e di sprezzo del pericolo o se erano davvero l'ideale traguardo del superuomo, è difficile stabilire.

Ma ad ogni modo l'effetto che le imprese dell'eroe ebbero sul morale dei soldati e sulle sorti stesse della guerra fu sorprendente. Il vate divenne il jolly usato dal Comando militare in tutte le armi: come tenente dei Lancieri di Novara, come marinaio, ufficiale di collegamento alla 45ma Divisione di fanteria e aviatore, infuse coraggio alle truppe esauste, incitò le squadriglie aeree alle più alte imprese, lanciò manifestini più pericolosi delle bombe per il nemico che si vedeva provocato e sbeffeggiato dal diabolico pilota.
Ogni singola squadra aerea e ogni grande impresa di guerra ebbero da d'Annunzio il proprio motto. Ecco nascere il «Memento audere semper» e l' «Osare l'inosabile» della Beffa di Buccari; il «Donec ad metam» del volo su Vienna, un 'impresa che sulla stampa estera ebbe risonanza se non superiore per lo meno pari a quella avuta in Italia.

«Generalmente consideriamo l'aviazione come un'arma riservata ai giovani» -scrisse il Tirnes dopo il volo su Vienna - ma il maggiore d'Annunzio ha passato da parecchio i 50 anni, eppure ha bombardato Cattaro e Pola, ha mitragliato da bassa quota le truppe austriache durante l'ultima offensiva sul Piave. Nonostante le ferite riportate e l'occhio perduto il suo ardore è immutato.
A vrebbe potuto bombardare Vienna. Forse i tedeschi potranno pensare che questa non è guerra ma neppure possono negare che ciò è magnanimo, è magnifico.
Nella loro poetica realtà le imprese di d'Annunzio sorpassano i voli leggendari di Ruggero e di Astolfo sull'Ippogrifo. Ciò che Ariosto cantò, d'Annunzio lo ha compiuto».

Antiche grida di guerra, slogan basati su giochi di parole, usati come esorcismi contro il nemico, sembrarono dare al poeta una sorta di magica immunità: brevi frasi pronunciate con forza contenevano tutta l'energia vitale di un uomo che le sconfitte, la morte dei compagni, le miserie della guerra in apparenza non scalfivano.
Senza le pagine dolenti del Notturno si sarebbe potuto pensare a d'Annunzio come un mostro di insensibilità che dal suo «velivolo fulmineo di ferro e di fuoco» buttava bombe con la freddezza di chi manovra un computer.

Ma forse il volo era per lui semplicemente la droga che gli faceva dimenticare le miserie della guerra e lo spingeva a sfidare ogni giorno la morte in un gioco assurdo ed estenuante.

La« Vittoria mutilata» non fece che aumentare la forza oratoria e al tempo stesso l'azione di Gabriele d'Annunzio. Ecco l'immaginazione al potere: Fiume, la Città di Vita fu governata per 15 mesi da un poeta che ogni giorno proclamava a gran voce gli ideali di giustizia e di libertà per cui migliaia di giovani avevano combattuto, che voleva creare una città sede di tutte le arti, dotata di un immenso teatro aperto a tutti, in cui la musica era protagonista, che sognava una crociata in favore delle nazioni povere contro quelle usurpatrici.
Ma il Comandante si scontrò ben presto con una realtà ben diversa dai suoi desideri: la città fu ridotta alla fame per il blocco deciso dal governo italiano, ogni trattativa cadde nel vuoto, caddero infine le prime vittime di una guerrafratricida.
Di quei giorni rimase l'ardente oratoria dannunziana: sentire parlare d'Annunzio fu per la popolazione di Fiume, per i legionari, per i numerosi visitatori attratti dal clima festaiolo della città, uno spettacolo straordinario e indimenticabile.
I suoi motti erano sempre più «arditi», oggi diremmo trasgressivi, come il popolare «Me ne frego» degli Arditi ripreso poi di peso dai fascisti. Mussolini, a proposito del motto, scrisse pochi anni dopo: «L'orgoglioso motto squadrista "Me ne frego"scritto sulle bende di una ferita, è un atto di filosofia non soltanto storica, è il sunto di una dottrina non soltanto politica: è l'educazione al combattimento, l'accettazione dei rischi che esso comporta: è un nuovo stile di vita

ideale». Ma lo stile di vita ideale, concepito dal Duce, d'Annnunzio in realtà lo disprezzò con tutta l'anima. Egli aveva sognato di rinnovare l'Italia, di combattere il parlamentarismo corrotto e la democrazia rinunciataria.
Aveva sperato che il suo colpo di mano a Fiume avesse come contraccolpo la caduta del governo Nitti, da lui odiato. La sua metafinale era in realtà Roma.
E Mussolini, che nel' 19 sembrava avere gli stessi ideali, alI 'inizio aveva appoggiato incondizionatamente l'impresa dannunziana.

«La capitale d'Italia è sul Quarnaro non sul Tevere», aveva scritto sul Popolo d'Italia.
«Là è il nostro governo al quale d'ora innanzi obbediremo.»

Poi il voltafaccia. Alla vigilia del drammatico «Natale di sangue», Mussolini incontrò in una sala del Caffè Savini a Milano, gli emissari di Giolitti e promise loro di abbandonare il Comandante alla sua sorte in cambio dell'appoggio alle elezioni ormai vicine del '21.
«Eccoci soli, soli contro tutti col nostro solitario co-raggio», commentò amaramente d'Annunzio alla fine di un 'avventura che segnò la fine di un 'epoca.
Il tradimento di Mussolini non lo scordò facilmente.
Allora pensava che si trattasse di un piccolo profittatore.

Tra l'altro Mussolini fu accusato da due redattori del Popolo d'Italia di aver intascato con disinvoltura i fondi ottenuti con la sottoscrizione aperta sul suo giornale, pro Fiume  -fondi che nel gennaio del 1920 erano. vati alla cospicua somma di tre milioni di lire e che a me non arrivarono mai.
Una sorta di operazione pulite ante litteram, in cui lo stesso Mussolini confessò di aver speso una parte di quei soldi per la campa elettorale - previa autorizzazione, egli sostenne, d'Annunzio.

Anche dopo la Marcia su Roma, il poeta era convinto che il governo messo su dal dittatore fosse solo di transizione.
Non aveva capito per tempo l'abilità e la fredda determinazione di quell'uomo che lo escluse drasticamente dalla vita politica italiana.
Ma che in fondo, salvò la vita.
L'onorevole De Vecchi, all'indomani della Marcia su Roma, aveva infatti espresso pubblicamente il suo rammarico che nessuno avesse ancora tolto di mezzo l'«ingombrante d'Annunzio». Ma d'Annunzio non fu più ingombrante.
Oramai aveva abbandonato l'azione per tornare ad essere un tista puro, chiuso nei suoi mistici sogni. Pensava anche di poter essere, con le sue gesta eroiche, i suoi discorsi suoi libri, una guida spirituale per il Paese, di poter salvare l'Italia dalla confusione e dal disordine, sperò di poter influire positivamente sul Duce.
Ma tutto fu inutile di fronte alla ferma volontà di Mussolini di sva-lo-za-re d'Annunzio, come egli tuonò più di una volta nelle sue riunioni con i fedelissimi.
D'Annunzio, dal canto suo, finse di ignorarlo, ma prese sempre più le distanze da un movimento che peccava di fanatismo e mancava di stile.
«I giovani invecchiano presto cantando Giovinezza», disse ironicamente vedendo marciare il Duce alla testa dei giovani, «di anni e di spirito».

La schermaglia durò fino alla morte del poeta fra reciproci favori, timori e rivalità.
Il vate inviava per vie non ufficiali le sue proteste verbali - l'unica forma di protesta possibile per lui -mentre il Duce si limitava a contentare i suoi desideri nell'eterna paura di un improvviso «colpo di testa». Il fervore del vate sembrava infatti, inesauribile.

«La passione in tutto. Desidero le più lievi cose perdutamente, come le più grandi.
Non ho mai tregua...», scrisse ancora negli ultimi anni della sua esistenza.

Nessuno credeva veramente che il piccolo dio dalla vita inimitabile, potesse un giorno morire.

Paola Sorge

I Motti di guerra
I Motti di Fiume
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